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giovedì, maggio 08, 2008

Neoemozioni

DI SEGUITO POSTO UN TESTO "RIASSUNTIVO" SULLE NEOEMOZIONI. MI PIACEREBBE AVERE IL VOSTRO PARERE SU EVENTUALI ERRORI O INTERPRETAZIONI SCORRETTE DELLA TEORIA DI RIFERIMENTO.
GRAZIE

La teoria delle neoemozioni

Le neoemozioni sono un concetto legato alle emozioni in senso proprio, si distinguono però per la centratura sulla funzionalità relazionale dell’emozionalità piuttosto che sul funzionamento biologico.

Le neoemozioni definiscono delle modalità emozionate, quindi inconsapevoli, che organizzarsi dei rapporti interpersonali. La teoria delle neomozioni prevede che l’approccio emozionale alla realtà si fondi su dinamiche di possesso.

Il possesso è quindi il concetto fondante di una serie di dinamiche relazionali la cui peculiarità sta nel tentativo di includere l’altro nella propria sfera di potere, diminuendo così l’elemento che definisce l’esistenza stessa dell’altro: l’alterità.

Ciò che è altro da noi rappresenta, se non conosciuto, prima di tutto un potenziale pericolo. Le emozioni tendono infatti ad innescare atteggiamenti difensivi di fronte a stimoli nuovi, generando risposte comportamentali (attacco-fuga).

Nei primi anni di vita il bambino percepisce come sconosciuti la gran parte degli stimoli che raccoglie, imparando lentamente a riconoscerli ed acquisendo di conseguenza la capacità di trattarne in numero sempre maggiore. E’ interessante come si possa sostituire nella frase precedente il termine appropriarsi al termine imparare: questo uso di termini a denotazione possessiva denota proprio la natura del processo di apprendimento emozionale consistente nell’appropriazione dell’alterità dello sconosciuto e nella sua distruzione.

Appropriarsi dell’altro significa sì eliminarlo come fonte di minaccia, ma anche ridurre le possibilità di scambio e confronto razionale. Le dinamiche di possesso sono riscontrabili nella maggior parte dei rapporti umani e la loro azione nei contesti relazionali tende a creare delle dinamiche relazionali che definiscono l’identità del contesto stesso attraverso la definizione reciproca delle relazioni tra singoli partecipanti e partecipanti e contesto.

Secondo la teoria delle neoemozioni le dinamiche di possesso si traducono nell’atteggiamento fondamentale della pretesa.

Pretendere è la neoemozione fondamentale, e generalmente la prima strategia di possesso che viene messa in atto. Di fatto il pretendere si giustifica di per sé nella fantasia di possesso che genera l’atteggiamento di pretesa stesso. Questo significa che la pretesa è una modalità relazionale priva di un prodotto definito o comunque conosciuto tanto a chi la agisce quanto a chi la subisce.

Un esempio plausibile è dato da una coppia in cui uno dei partner comunichi all’altro la necessita di essere amato di più, senza specificare cosa questo debba significare fattivamente. Possiamo immaginare come qualsiasi tentativo dell’innamorato volto a soddisfare questo desiderio possa finire in un nulla di fatto in quanto, essendo l’unico obiettivo della pretesa il possesso, chi pretende soddisfa il suo bisogno di possesso solo fino a quando la controparte si adopererà nel tentativo di soddisfare la pretesa.

La pretesa può essere la modalità relazionale fondante di contesti anche più strutturati, come ad esempio i contesti produttivi: un responsabile di una squadra operativa, che può un’equipe di ingegneri occupati in ricerca e sviluppo piuttosto che un gruppo di operai di una linea produttiva, che fondi il suo rapporto con i subalterni sulla pretesa non farà altro che imporre obiettivi irrealizzabili manifestando insoddisfazione per ogni risultato raggiunto, per quanto positivo.

Una relazione od un contesto fondati sulla pretesa difficilmente trovano a lungo un equilibrio soddisfacente, è più che plausibile che vi siano tentativi di liberarsi da parte di chi subisce tale stile relazionale, tentativi che saranno percepiti come segnali di inefficacia della pretesa da parte di chi la agisce che sarà così portato ad apportare nuovi elementi al legame nel tentativo di non perdere il possesso dell’altro.

Dal fallimento, parziale o totale, della pretesa tendono ad instaurarsi rapporti fondati sul controllo o sulla diffidenza. Ulteriormente, dal controllo derivano atteggiamenti di obbligo e provocazione mentre dalla diffidenza provengono atteggiamenti di preoccupazione e lamento. Procediamo ad analizzarle nel dettaglio partendo dal ramo del controllo.

Il controllo è la risposta attiva ai segnali di fallimento della pretesa e consiste nella continua ricerca della conferma delle proprie fantasie sulla relazione con l’altro nel rapporto stesso. L’individuo che agisce il controllo non è interessato a nessun tipo di messaggio da parte dell’oggetto del suo controllo che non sia volto a confermare le sue aspettative sullo stato della relazione. In questo modo si nega l’identità dell’altro in quanto l’attenzione è tutta incentrata sul controllo della relazione.

Chi agisce il controllo teme che, in assenza di continui controlli sul rapporto, l’altro possa diventare in qualsiasi momento una minaccia. Questa paura però fa si che le relazioni fondate sul controllo si riducano ad interazioni sociali in cui l’interesse non è volto a conoscere la realtà dell’altro ma solo a verificare le proprie aspettative circa il ruolo che l’altro svolge nei propri confronti.

Il controllo, come già detto, si sviluppa in due stili relazionali differenti: la provocazione e l’obbligo.

Provocare è un modo di controllare la relazione che si manifesta attraverso il ribaltamento delle regole del contesto. Agire la provocazione consente di allontanare il rapporto dalla possibilità di generare un prodotto spostando il senso del rapporto sulla detenzione del potere. La provocazione può anche essere l’estremo tentativo di manifestare la paura di non essere visto: tentando di arrogarsi il potere di decidere che l’altro lo veda, quindi di esistere per l’altro, il provocatore si libera della sua paura.

Le relazioni fondate sulla provocazione necessitano quindi della presenza di rapporti di potere in cui il fatto che il potere sia detenuto da qualcuno è l’unico punto importante.

Il problema dell’efficacia e l’idoneità del potere rispetto alle problematiche effettive del contesto non viene posto, in quanto il potere esaurisce la sua funzionalità nel conferire identità nella relazione, e null’altro.

Obbligare è invece uno stile relazionale che agisce il controllo attraverso la colpevolizzazione: chi obbliga pretende infatti che l’altro esegua un ordine preciso e per ottenere questo risultato utilizza strategie volte a generare senso di colpa. Anche in questo caso siamo quindi di fronte all’azione di un potere che si legittima con argomentazioni sulla necessità del potere stesso (creando la percezione che in assenza di potere si andrebbe in contro a catastrofi non meglio precisate in forza della quale chiaramente si accetta di subire il potere piuttosto che rischiare esiti catastrofici) o con l’obbligarsi per obbligare che si traduce in affermazioni introdotte da “con tutto quello che ho fatto (mi sono obbligato a fare) per te” che si concludono immancabilmente in “non puoi rifiutarti di ricambiare facendo questa cosa per me”. In realtà si potrebbe certamente rifiutare portando a livello esplicito il meccanismo relazionale e superando così il senso di colpa.

La diffidenza è la risposta passiva ai segnali di fallimento della pretesa e consiste nella percezione dell’altro come costante possibile fonte di minaccia. Chi agisce la diffidenza vive in uno stato di continuo allarme, in quella che potremmo definire una forma di comportamento delirante in quanto slegata dai dati di realtà che non vengono percepiti in quanto la relazione si ha tra sé e la propria idea dell’altro, la rappresentazione fantasmatica. Diffidare è un atteggiamento che potremmo definire di fuga preventiva: si nega la realtà a priori in modo da evitarsi qualsiasi evento spiacevole derivante dal confronto con la realtà stessa. Chiaramente stare nell’agito della diffidenza non è di per sé piacevole in quanto, percependo il mondo come minaccioso a priori ci si nega qualsiasi forma di contatto positivo. L’agito della diffidenza, a differenza del controllo, non ricerca nella relazione conferme alla fondatezza dell’agito stesso proprio a causa della sua natura autoriferita.

La diffidenza si sviluppa in due stili relazionali che sono la lamentela e la preoccupazione.

La lamentela chiama in causa un soggetto terzo rispetto alla relazione principale. Attraverso questa relazione accessoria colui che agisce la lamentela può esprimere il suo disagio senza il rischio rappresentato dal confronto con il soggetto del rapporto problematico. Il disagio nasce dalla sensazione di avere l’altro fuori controllo, dal sentirsi impotenti nel soddisfare la propria necessità di possederlo. L’agito del lamentarsi non cerca soluzioni al proprio desiderio (è infatti impossibile realizzare la fantasia del possesso totale dell’altro) ma piuttosto uno spazio entro cui sfogare il proprio disappunto circa la realtà implicita ed evidente dell’esistenza indipendente dell’altro.

Anche l’agito della preoccupazione necessita di un soggetto terzo per esprimersi. In effetti la natura passiva del diffidare da cui preoccupazione e lamento derivano manca della parte attiva, che deve quindi essere affidata all’esterno. La preoccupazione manifesta apertamente la propria impotenza ed invita, più o meno coercitivamente, il soggetto terzo a muoversi verso una soluzione del rapporto problematico, avanzando continui dubbi su come andranno le cose.

Le dinamiche neoemozionali sopradescritte sono pesanti limiti alla libertà individuale: lasciando campo libero agli agiti neoemozionali ci arrendiamo alla nostra natura istintuale e ai nostri vissuti, due elementi certamente importanti che rappresentano però, se trattati acriticamente o peggio inconsapevolmente, un pesante limite alla libertà personale.